BEATA ELISABETTA DELLA TRINITÀ

BEATA ELISABETTA DELLA TRINITÀ

Memoria liturgica: 8 novembre
Elisabetta Cadez (Camp d’Avor, Bourges, Francia, 18-6-1880 – Dijion, 9-11-1906) entrò tra le Carmelitane Scalze di Dijion nel 1901. Beatificata da Giovanni Paolo II il 24-11-1984, è una delle figure più note della spiritualità contemporanea. Col suo esempio e con la sua dottrina, da anni esercita un influsso sempre in aumento, dovuto soprattutto alla sua esperienza trinitaria e ai suoi brevi scritti (note spirituali, corrispondenza) densi di dottrina ed eco della sua comunione con le Tre Divine Persone.

Umile pura, ricca di intelligenza aperta a tutte le bellezze della grazia, della natura e dell’arte, alla scuola di s. Paolo, di s. Teresa d’Avila e di s. Giovanni della Croce, imparò la lezione dell’amore ai “Tre” – secondo l’espressione che le era cara – e insieme le leggi della corrispondenza a tale amore. Silenzio e raccoglimento, contemplazione illuminata del mistero Trinitario, docilità generosa alle minime ispirazione, fedeltà incondizionata alla volontà di Dio nella sua vocazione carmelitana… la formarono ad una vita di dedizione che in breve raggiunse alta perfezione.

Elisabetta dellaTrinità

Aderendo all’anima di Cristo, in Lui e con Lui si elevò alla Trinità, della quale volle essere laudem gloriae, cioè un’anima “che adora sempre e, per così dire, è tutta trasformata nella lode e nell’amore, nella passione della gloria del suo Dio”. Questo orientamento spirituale, fondato sulla convinzione di fede dell’inabitazione divina, fu la grazia della sua vita.

La grazia della coscienza quasi ininterrotta dell’inabitazione della Trinità l’accompagnò negli ultimi anni della vita, fortificandola e sostenendola nel periodo di martirio che la doveva “configurare alla morte di Gesù, trasformarla in Lui crocifisso”, per la gloria del Padre e per la Chiesa.

Animata da tali certezze, sorretta da un amore sempre più vivo e teologale per la Vergine Immacolata – “la grande lode di gloria della Trinità”, come definiva la Madonna -, morì mormorando quasi in tono di canto: “Vado alla luce, all’amore, alla vita”. Era il 9 novembre 1906. Elisabetta aveva 26 anni.

Quando la giovane ragazza Elisabeth Catez abbandonò la sua vita di musicista e di turista, d’amica elegante e briosa, divenendo claustrale contemplativa al Carmelo di Digione in Francia, alcuni rimasero molto meravigliati: “Sarà senz’altro uno sbaglio…, ad Elisabetta piace troppo ballare, la musica…, la vita!”.

E invece: …un’altra breve esistenza bruciata nell’AMORE DELLA SS. TRINITÀ.
Elisabetta, nata a Camp d’Avor (presso Bourges) nel 1880, entra al Carmelo all’età di 21 anni, nel 1901, e solo pochi anni dopo, il 9 novembre 1906, per una malattia allora incurabile, termina la sua esistenza terrena.

Dalla sua morte, la diffusione della fama e del messaggio di Elisabetta si è effettuata attraverso i suoi scritti e soprattutto per la sua famosa preghiera: “O mio Dio, Trinità che adoro”. Mai più Elisabetta pensava di presentare una sua dottrina personale e originale. Ma quella che noi possiamo chiamare “dottrina spirituale”, lei la desunse dalla Scrittura, in particolare dal Vangelo secondo Giovanni e dalle lettere del suo “caro San Paolo”. Elisabetta ha letto e riletto (ruminato) i testi biblici. Si è fatta una “tutt’ascolto” della Parola di Dio. Ed ora siamo noi che ascoltiamo ciò che Elisabetta ha saputo estrarre dalle vive sorgenti della Scrittura.

All’età di 11 anni, il giorno della sua prima comunione, la piccola Elisabetta ascolta la Priora del Carmelo spiegarle il significato in ebraico del suo nome: “casa di Dio”. Dio abita in lei fin dal battesimo. Questa interpretazione del suo nome l’ha segnata per tutta la vita.

Prima della sua entrata al Carmelo, il Padre Vallée, priore dei Domenicani di Digione, la istruisce sugli splendori del mistero trinitario e sulla bellezza del nome che sta per prendere: “Elisabetta della Trinità”. Scopre progressivamente il mistero dei Tre e la grande vocazione che è nel suo nome… Ciò che colpisce maggiormente Elisabetta, è che questa intimità con le Persone divine, vissuta nella fede, anticipa la beatitudine finale. E’ il cielo goduto già ora sulla terra, il cielo nella fede che Elisabetta ci vuol trasmettere nella sua devozione alla Trinità.

Grande il suo amore per Cristo Gesù. “Una Carmelitana è un’anima che a lungo ha contemplato il Crocifisso…”. Alla scuola di san Paolo intende rispondere a Colui che troppo l’ha amata con il dono totale di sé. “L’apostolo scriveva: Non sono più io che vivo, ma è Cristo che vive in me… E’ il sono della mia anima di Carmelitana. Cerchiamo di essere per Lui un’umanità di supplemento in cui possa Egli rinnovare il suo mistero”.

Nel corso della sua malattia, Elisabetta trovò l’occasione per approfondire la “Conformità all’immagine del Cristo”, evocata da San Paolo, e divenuta ben presto per lei configurazione a Cristo crocifisso per amore, e partecipazione alla sua Passione per il suo Corpo che è la Chiesa.

Ancora in San Paolo trova una sfolgorante ispirazione: “Il mio gran desiderio è d’esser lode di gloria”.
“Il mio Sposo mi ha fatto capire che è lì la mia vocazione in terra d’esilio, in attesa di cantare il Sanctus eterno nella Città dei santi”. Da allora Elisabetta si firma addirittura in latino: “Laudem gloriae”.

A più riprese, questa giovane ardente donna proclama ciò che chiama “il segreto della felicità” e che accoratamente ci vuole raccomandare. Si tratta dell’intimità con Dio: “Vorrei dire a tutte le anime quali sorgenti di forza, di pace e anche di felicità troverebbero se provassero a vivere in questa intimità con Dio”. ne è così convinta, che non smette di ripetere: “Egli è l’Amore, e vuole che noi viviamo in sua compagnia”.

Questo è l’ultimo messaggio che ripetutamente trasmette nelle sue ultime lettere. “Vi lascio la mia fede nella presenza di Dio, del Dio Tutto-Amore abitante nelle nostre anime. Ve lo confido: è questa intimità con Lui al di dentro il più bel sole irradiante la mia vita”.
“Credere che un Essere che si chiama Amore abita in noi ad ogni istante, di giorno e di notte, e che domanda solo di vivere in sua compagnia… Ricevere come proveniente direttamente dal suo amore ogni gioia, come ogni sofferenza… Questo contribuisce ad elevare l’animo al di sopra di ciò che accade, e lo fa riposare nella pace, nell’abbandono dei bimbi di Dio”.

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